Dopo aver vissuto un'esperienza intensa e significativa - nel bene e nel male - come quella del Covid 19, che ci ha ci ha fatto riflettere su ciò che è davvero importante, secondo te è possibile cambiare e vivere nel futuro in modo più essenziale e coerente?
Secondo me è possibile cambiare e vivere nel futuro in modo essenziale e coerente, ma è molto complicato, perché siamo circondati da un mondo dove regnano il capitalismo e i pregiudizi; ad esempio se non hai una determinata marca di scarpe non sei nessuno. Devono essere gli altri a decidere cosa devi indossare, chi devi essere, che musica ti deve piacere, gusti diversi = sei diverso dalla massa = in alcuni casi potresti essere emarginato. Quindi cambiare è molto difficile, specie se ti importa di ciò che pensano degli altri, se non ti importa cambiare non è un problema.
Continuare a comprare cose costose, acquisto su acquisto, “salverà” l'apparenza, ma non renderà felicità, ma solo vuoto dentro.
Poi se dovessimo fare un elenco delle cose essenziali, tutte le cose che possediamo sarebbero escluse, perché abbiamo troppe cose, siamo talmente ossessionati da ciò che non serve, dai dettagli, che non sappiamo più cosa è davvero essenziale. Viviamo in un’epoca in cui le cose superflue sono le nostre uniche necessità. Ogni giorno della vita è unico, ma abbiamo bisogno che accada qualcosa che ci tocchi per ricordarcelo. Non importa se otteniamo dei risultati o meno, se facciamo bella figura o no, in fin dei conti l’essenziale, per la maggior parte di noi, è qualcosa che non si vede, ma si percepisce nel cuore (Haruki Murakami).
Quindi secondo me si può cambiare e vivere con l’essenziale, basta solo non pensare ciò che gli altri pensano di te. Una cosa che secondo me è necessaria, sono gli amici, quelli sono davvero importanti.
Luca Beluffi 1AELE
Cosa intendi tu per “democrazia”? Quali sono gli esempi della sua assenza o presenza nella tua vita?
DEMOCRAZIA
/De·mo·cra·zì·a/ : sostantivo femminile, forma di governo in cui il potere viene esercitato dal popolo, tramite rappresentanti liberamente eletti.
Per oltre mezzo secolo è stata considerata un punto di arrivo; nel 1941 solo 11 paesi al mondo erano organizzati secondo una linea politica basata sui principi democratici.
Dopo la seconda guerra mondiale si è diffusa rapidamente come un virus e correva l’anno 2000 quando 116 paesi erano considerati democrazie.
Non è di dominio privato il fatto che negli ultimi anni la democrazia abbia perso terreno, letteralmente, questa tendenza ha iniziato a invertirsi dopo il 2006 e la crisi del 2008 ha fornito un colpo relativamente duro: alla fine del 2017 i paesi democratici erano calati a 97.
Oggi questa democrazia è in crisi: il popolo si sente tradito da qualsiasi governo salga al potere, preferisce votare ‘contro’ qualcosa piuttosto che ‘per’ qualcosa, le disuguaglianze sono in netto aumento così come la corruzione e la debolezza dei partiti politici, venuti meno al loro scopo: portare al “trono” individui capaci di guidare la ‘res publica’.
A parer mio la democrazia italiana è in serio pericolo: non solo perché il governo è formato da due partiti che sono in minoranza nel paese, di cui uno crollato al minimo storico nelle politiche del 2018 e l’altro ha dimezzato i voti alle europee del 2019, ma soprattutto perché una democrazia in salute si vede dalla libertà dell’opposizione di esprimersi.
Cosa non troppo presa in considerazione, direi.
Evidente durante questa crisi mondiale è il fatto che questa stessa crisi socio-politico-economica stia portando alla luce tutte le avarie che i motori politici presentano sul globo.
Non crederò nella democrazia, finché il mio paese sarà rappresentato da chi la democrazia la razzola tanto male quanto bene la predica e ci mette meno a farsi corrompere che a guardare in faccia milioni di persone ridotte allo stremo delle loro vite annaspare come pesci fuor d’acqua.
Può essere uno stato democratico maturo quello che vede i rappresentanti “del popolo” urlare come primati in parlamento, fare dissing sulle reti nazionali e concentrarsi più sui riscontri dei media, la percentuale di share e prepararsi sul continuare il botta e risposta.
Politici che si presentano dalla D’Urso, per parlare di politica, e finiscono nella rete di ignoranza che La Volpe ha costruito quella sera per loro ed ancora più ignorante è il popolo che si fa distrarre con le vignette on-line.
Questa non è democrazia, è la politica dello Spostare il Problema.
MES sì, MES no, 2012, #Meloni, #lebimbediConte, #Salvinifuoricongliimmigrati : questo è quello di cui si preoccupa metà della popolazione, poi ci sono coloro che percepiscono il problema ma cedono al silenzio perché convinti che non farebbero la differenza, e quei pochi infine che ci provano e vengono additati come anarchici. Così, per togliere loro il favore della comunità che li circonda, li si demonizza facendo sì che le loro voci vengano travisate con un'apparente utopia improbabile persino come tale.
App IMMUNI: la più grande inutile invenzione dopo il burro in stick, una falsa assicurazione di Conte per tener buona la popolazione, farla sentire tutelata.
I tamponi non ci sono per tutti, i soldi promessi due mesi fa neanche, forze dell’ordine che abusano del loro potere per quelle poche volte che sono state chiamate alla vigilanza dello Stato.
Non siamo in democrazia, siamo sotto la costruzione di un regime velato dal buonismo e da grandi discorsi che richiamano l’unità della patria sotto un premier che si presenta come unico collante del governo, unico e splendente messia che ci trainerà fuori da questa emergenza.
Lo stesso premier che avrebbe potuto iniziare il lock-down nel momento giusto, lo stesso che demolisce le opposizioni sui media nazionali senza possibilità di dibattito, lo stesso che dovrebbe chiedere al popolo se vuole indebitarsi e piegarsi all’Europa del nord, lo stesso che non sta rappresentando nessuno se non se stesso.
Che democrazia è? Nessuna, finché chi dovrebbe lottare ai piani alti per noi, lotta più per tenere la poltrona. E per se stesso, mica per noi.
Non è democrazia finché il popolo viene chiuso fra quattro mura, privo di voce in capitolo: app per il tracciamento dei contagi sì, per l’autocertificazione sì, app per il voto da casa no.
Quella potrebbe essere hackerata, come il sito dell’INPS, magari?
O forse è più facile utilizzarla per tracciare la popolazione facendo sì da ottenere il suo consenso in modo volontario e non doverlo più fare di nascosto?
“Mandare il popolo alle urne significa una nuova ondata di contagi, dobbiamo proteggere la popolazione”, questa non è democrazia, ma è un disperato modo per detenere il potere appunto quando gli strumenti per consultare i cittadini esistono e forse sono anche più affidabili della tessera elettorale.
Ma il popolo vede più facilmente il buonismo di queste frasi, piuttosto che la soluzione al problema, non è solo questione di democrazia, ma anche di popolazione ignorante nel senso proprio del termine, senza neanche tanto disprezzo.
Un popolo non istruito è un popolo sottomesso, dato di fatto anche questo ignorato: è sufficiente pensare che basti un’affermazione, una fake news, qualsiasi cosa, per scoperchiare il vaso di Pandora su facebook e far fuoriuscire rabbie e idee infondate, un vaso che nemmeno esiste o magari c’è ed è lì vuoto.
E scatenano guerre inutili che alimentano ciò che non ha bisogno di spinta, l’ignoranza non ha bisogno di ulteriori venti in poppa.
Teste vuote che aprono vasi vuoti mentre i loro piatti sono vuoti pure, mentre altri aprono il conto corrente e lo trovano pieno, straborda quasi, a discapito dei primi.
Non si può parlare di democrazia applicabile e concreta finché non è il popolo a comprendere in principio le priorità e a pretenderle, come non si può chiedere ad un uomo, notoriamente creatura propensa alla voglia di potere, di rinunciarvi una volta ottenuto.
Non importa come, quando e perché: lotteranno sempre per quelle famigerate poltrone, dipende per cosa vogliamo lottare noi, come vogliamo farlo e soprattutto se vogliamo farlo.
La democrazia non è dunque un punto di arrivo bensì da cui ripartire.
Anthony Gabriel Bardhi 5^ABIO
3blsa a.s. 2019-2020-gennaio 2020
leggete gli 11 racconti di Piccoli equivoci senza importanza di Antonio Tabucchi: apprezzate lo stile, la simmetria narrativa e la visione della vita dell'autore. Poi scrivete, cercando di imitare lo stile e la struttura dei testi di Tabucchi, il dodicesimo racconto...
Il dodicesimo racconto di Lucia Cosenza
Una delle ultime foglie d’autunno stava raggiungendo il suolo proprio in quell’istante.
Probabilmente eccitata per l’inizio di una nuova avventura, entusiasta di poter finalmente raggiungere le altre compiendo anche lei la consueta danza finale; apparentemente inizio di un’avventura.
Noi eravamo proprio come lei, pronte a rincorrerci l’un l’altra nella speranza di rincontrarci un giorno, per poter finalmente iniziare quella che pensavamo sarebbe stata la nostra vita, il nostro rinascere.
Eravamo fatte per stare insieme, l’una accanto all’altra, pronte a sorreggerci a vicenda.
Ci conoscevamo alla perfezione, ma eravamo ancora troppo immature per sapere a cosa saremmo andate incontro e, soprattutto, non era ancora autunno.
Eravamo acerbe come l’epoca in cui stavamo vivendo, piena di lotte per qualcosa che noi sognavamo troppo presto; ma alla fine si sa, i sogni infantili sono destinati a pochi, alcuni si rivelano semplici conclusioni e altri delusioni.
Aveva degli occhi che mi incantavano e che avevo riconosciuto per la prima volta solo dopo molti anni; degli occhi semplici ma brillanti di luce propria, luce che insieme alla sua anima si spense sempre di più fino a raggiungere le dimensioni di un lumino.
Era un desiderio eterno ma si sa, le foglie non ricadono nello stesso punto, l’una vicino alle altre, sono separate da agenti atmosferici, esseri viventi e molto altro ancora.
Pensavo fosse semplicemente bellissima mentre la guardavo disegnare un qualcosa a me sconosciuto mentre ogni tanto si distraeva guardando fuori dalla finestra; probabilmente stava disegnando qualcosa a lei molto caro, come di consuetudine, ma allo stesso riposto in un angolo oscuro della sua mente, annebbiato dal ricordo delle nozze con il marito o dal pianto del figlio in cerca di attenzioni.
Io di lei conoscevo molto, mi ricordavo tutti i particolari, tutte le emozioni anche se premature che aumentavano i battiti del mio allora piccolo cuore; e anche se ero sicura che lo stesso valesse per lei, un giorno mi spiazzò, mi lasciò senza la speranza di cadere leggiadramente ma solo di precipitare.
Mi ritrovavo in viaggio con colui che avrebbe dovuto rappresentare il centro del mio universo, e a tratti effettivamente lo era, ma un’onda di vecchi sentimenti finiva sempre con l’adombrare la mia mente.
Avevo deciso di intraprendere questa avventura per dimenticare, per essere innocente e per molto altro ancora ma, quasi come se fosse uno scherzo del destino, mi ritrovai di nuovo ad essere una silenziosa spettatrice, con la voglia di urlare ma trattenuta da un potere superiore, qualcosa che per me era sconosciuto o per meglio dire, speravo che così fosse.
Quello che mi stava accadendo era ben evidente; si ha continua speranza in qualcosa che ha lasciato un segno in noi, che rimarrà per noi memorabile ma non sempre è così, basta trovare il giusto equilibrio e dimenticare quale sia la vera felicità per accontentarci e, in fondo, è un po’ quello che fanno tutti i bambini con sogni terreni, non condizionati dal loro volere.
A volte penso che tutto ciò valesse solo per me, temevo fosse stato solo un divertimento adolescenziale dettato dalla curiosità verso il nuovo e il pericolo; d’altronde, ricordo ancora alla perfezione cosa continuava a ripetermi nei momenti di lucidità, non siamo altro che un piccolo equivoco senza importanza in quello che sarà il nostro passato; o per meglio dire, ciò che avremmo seppellito in seguito a una scelta apparentemente banale e dettata dall’inquietudine che segnò per sempre le nostre vite.
Cappotto rosso di Ginevra Ghisalberti
Stavo camminando in quel parco che ormai conoscevo a memoria, avrei potuto percorrerlo ad occhi chiusi, conoscendo il posto esatto in cui il terreno era rotto dalle radici dei vecchi alberi che affioravano in superficie, i due spiazzi fangosi in cui una volta erano presenti due piccoli laghi in cui nuotavano tanti germani reali seguiti da anatroccoli. Sapevo dove d’autunno le foglie si accumulavano più spesso e i posti da evitare in primavera perché, essendo allergico al polline, avrei rischiato di soffocare per le troppe graminacee. E camminando mi guardavo in giro e vedevo un piccolo Armando che giocava con il suo migliore amico Enrico, vedevo noi due che giocavamo con le nostre barchette di carta nel laghetto, ci schizzavano e facevamo a gara a chi arrivava per primo alla vecchia quercia in fondo al parco. ‘La mia barca è più bella della tua, guarda come sfreccia’ mi disse Enrico. Lui era il più affascinante della classe, tutte le bimbe lo guardano sempre con desiderio mentre di me non si ricordavano mai il nome. Era furbo, sveglio, se finiva nei guai sapeva sempre come cavarsela, era abile in tutto quello che poteva essere considerato sportivo. Era la classica peste che, nonostante questo, agli occhi degli altri appariva come un tenero angioletto che riusciva sempre a strappare un sorriso. E io non ero altro che la sua ombra, lui era la mente ed io il braccio, se lui faceva un qualsiasi tipo di cosa io la facevo a mia volta, credendo che imitandolo sarei stato, per lo meno, un poco più apprezzato. E ora eccomi, nonostante i miei sforzi ero divento quell’uomo solo e noioso che da ragazzino giuravo non sarei mai diventato. Camminavo senza compagnia nel solito vecchio e noioso parco, non avevo mai scelto una destinazione diversa per le mie passeggiate pomeridiane, forse perché quel parco un po’ mi rispecchiava. Nessuno se ne prendeva cura, era poco popolato, le persone che lo conoscevano erano del posto. E io mi sentivo solo e triste come lo era il mio parco. Avvolto dai troppi pensieri che di certo non mi facevano del bene, ma rassegnato dal fatto che la mia mente viaggiava troppo e non potevo controllarla, andai a sedermi sulla solita panchina di legno ormai marcito, presi un po’ di tabacco dalla tasca e lo misi nella mia vecchia e usurata pipa. Fumare mi rilassava, riuscivo a dare un freno per qualche minuto alla mia mente che amava viaggiare. Chiusi gli occhi e non pensai più a niente. Sentivo il rumore del tabacco che bruciava, il fruscio delle foglie mosse dal vento e il mio respiro era regolare, tranquillo. Un profumo familiare mi fece tornare alla realtà, quel profumo che mi coccolava spesso nei momenti più tristi. Era il profumo delle pagine di un libro. Amavo leggere, mi rivedevo spesso nei protagonisti per il semplice fatto che le loro vite erano sempre più belle ed emozionanti delle mie. Aprii allora gli occhi e la vidi, una bellissima e apparentemente colta giovane donna. Leggeva un romanzo scritto con caratteri piccoli e quasi illeggibili. Mi accorsi però che la stavo fissando a bocca parte già da troppo tempo così la chiusi e senza controllare le parole le chiesi: ‘Ti da fastidio l’odore della pipa?’ E lei dolcemente mi rispose di no. Aveva gli occhi grandi e una voce molto calda. Mi piaceva. E dal modo in cui mi guardava con quei suoi occhioni sembrava che magari, un poco, forse le piacevo anch’io. Io sono sempre stato un tipo impacciato ed è proprio in situazione come quella che non mi sapevo comportare; così senza troppi complimenti mi alzai e me ne andai. Non volevo, io volevo restare vicino a lei e parlarle, ma le mie gambe senza controllo mi portarono via. Il giorno dopo tornai al parco con l’unica speranza di rivedere quella bellissima donna che mi aveva tenuto sveglio tutta la notte. E si, la trovai ancora su quella panchina, non ci volevo credere eppure era lì, davanti a me. Lei era bellissima, aveva dei lineamenti dolci, una bocca sottile e un naso alla francese. Gli occhi erano blu intenso e i capelli che le sfioravano e
contornavano il viso erano castano chiaro. L’avevo vista solo due volte ed entrambe le volte lei stava seduta, ma ero abbastanza sicuro che non fosse tanto alta. Era vestita in modo semplice ma sempre elegante e portava, entrambi i giorni, un cappotto rosso che le calzava a pennello e che però stonava un po’ con il mio color cammello, un po’ usurato e vecchio. Mi sedetti vicino a lei e riuscii pure a dirle un semplice e tremolante ‘ciao’ al quale lei rispose con un ‘ciao’ decisamente più sicuro e solare del mio. Sì, il suo ‘ciao’ è stato meglio del mio. Riuscii anche a chiederle come si chiamava, Alicia, era questo il suo nome. Era un nome bellissimo, particolare. Mi piaceva tanto. Mi presentai come Armando e iniziammo a parlare del più e del meno. Lei era tanto garbata nei modi di fare e riusciva a mettermi a mio agio. Io ero sempre il solito, un po’ timido e un po’ confuso. E il giorno dopo la trovai ancora lì, e così fu anche il giorno dopo ancora. Era bello come quell’incontro casuale divenne sempre più quotidiano, e come la mia noiosa e triste quotidianità, stando con lei, diventava interessante. Giorno dopo giorno e parlando sempre di più imparai a conoscerla bene quasi quanto conoscevo quel parco e con lei uscì il mio lato migliore, quello meno timido: ero riuscito a non pensare troppo alle cose da dire o da fare e ad essere, così, più spontaneo e ,credo, o almeno spero, più interessante. La dolce ragazza dal cappotto rosso aveva fatto breccia nel mio cuore e spesso mi ritrovavo incantato dalla sua voce, con gli occhi persi a guardarla. Mi sentivo un po’ un protagonista dei libri che tanto mi piaceva leggere e che ultimamente non leggevo più : la mia vita era diventata finalmente più interessante di quella di un qualsiasi personaggio inventato e letto su un libro. Passato quel freddo inverno era arrivata, come in un baleno, la primavera. Era sempre stato molto più lungo e noioso l’inverno mentre quest’anno era volato via, veloce. Era arrivata in un baleno la primavera e per questo motivo, quel pomeriggio, per andare alla mia panchina dovetti fare una strada diversa dal solito per evitare gli innumerevoli pollini. E una volta arrivato alla panchina non la vidi, non vidi il cappottino rosso che spiccava in mezzo al verde degli alberi e subito pensai che si era stufata di me, che avevo rovinato tutto.. ma no, mi calmai e capii che probabilmente aveva avuto un imprevisto. Il giorno dopo, pieno di speranza e di voglia di dimostrare a me stesso che non era successo nulla il giorno prima, andai di fretta al parco, ma, un poco me l’aspettavo e un poco speravo di sbagliarmi, lei non c’era più. Giorno dopo giorno, non vedendo più il cappotto rosso sulla panchina e non vedendo più la mia amata Alicia sorridermi e salutarmi con calore, capii che così velocemente come era iniziata, la nostra storia, se così si può chiamare, era già finita. Era colpa mia, probabilmente l’avevo fatta scappare. Ero stato egoista, la guardavo negli occhi pieni d’amore e invece che guardare lei, la sua anima e capire cosa pensava, vedevo il riflesso di un Armando finalmente realizzato e felice di poter condividere la sua quotidianità con una persona. Nonostante sapessi benissimo che non sarebbe tornata la aspettai per giorni, mesi, arrivó addirittura l’estate e mi domandavo cosa avrebbe indossato la bella Alicia se non il cappotto rosso che tanto mi piaceva di lei. Pieno di pensieri, come mio solito, aprii un libro e mi buttai a capofitto sulla lettura e con le mani sudate per il caldo afoso presi un po’ di tabacco, lo misi nella pipa e chiudendo gli occhi mi rilassai.
Punto, di Fabio Carlo Torresani
Mi risvegliai. Era da 4379 giorni che vivevo in quella buia, fredda e disgustosa cella. Come potrà sembrare comprensibile, non la sopportavo. Era piccola; a malapena ci sarebbe potuta stare una persona ed invece a condividerla eravamo in tre: io, Raimondo e Guglielmo. Ho sempre pensato, fin dal primo giorno in cui fui portato in carcere, che in nessuna altra parte del Mondo ci sarebbe potuta essere una stanza condivisa da tre uomini con dei nomi così particolari. Raimondo era un tipico agricoltore delle campagne piemontesi. Viveva con la moglie e i due figli in un piccolo paesino di provincia situato a pochi chilometri di distanza da Alessandria. Era ormai in prigione da parecchi anni, ma non sembrava affatto che tutto quel periodo gli fosse servito a qualcosa: non si era per nulla pentito dei suoi reati. Era un ultras, Raimondo. Era stato coinvolto in un violento scontro tra le due principali tifoserie di Torino: il Torino e la Juventus. Lui non si sarebbe mai tirato indietro. Avrebbe fatto di tutto per difendere i suoi colori: e così, per difendere un compagno caduto a terra e, apparentemente in fin di vita, estrasse dalla tasca del suo giaccone una pistola e fece fuoco. Uccise tre tifosi Granata. Quel giorno le vittime furono ottantatre e i feriti oltre duecento. Passò alla storia come il più grande scontro tra ultras della storia del calcio italiano. Ancora oggi, ogni anno, il 23 settembre, si ricorda quella tragica strage: nulla, però, smuove la coscienza di Raimondo.
Guglielmo, invece, era un importante uomo d’affari. Aveva perso i genitori da qualche anno e non aveva né moglie né figli: l’unico familiare che gli era rimasto era suo fratello, Gabriele. Guglielmo e Gabriele facevano lo stesso lavoro, ma non svolgevano il proprio mestiere insieme. Ognuno andava per la propria strada. Erano molto diversi i due fratelli: da una parte un uomo corretto e leale mentre dall’altra un vero e proprio truffatore. Come potete immaginare, quando scoppiò una maxi inchiesta che portò all’arresto di 29 persone per un giro d’affari illecito dal valore stimato di oltre mezzo miliardo di euro, non fu Gabriele ad essere arrestato. Guglielmo era stato portato in prigione dopo qualche mese rispetto a Raimondo e i due avevano stretto una forte amicizia che si consolidò anno dopo anno.
Poi arrivai io, Tiberio, un giovane colto, ma decisamente poco scaltro, che nulla aveva a che vedere con quei due. Non avevo nemmeno nulla a che vedere con quell’orribile posto. Dico così perché io non dovevo essere lì. Ero stato incastrato da due malviventi che, sfruttando la mia ingenuità, erano riusciti a farla franca. La mia condanna era avvenuta sotto gli occhi increduli della mia famiglia. Non li avevo mai delusi in vita mia. Avevo sempre agito nel modo più corretto possibile e quella notizia sconvolse la vita dei miei genitori, dei miei fratelli e di tutti i miei parenti. Non potevano credere ai loro occhi.
Quando arrivai in carcere, il primo giorno, ero in uno stato d’animo pessimo: speravo fosse tutto un sogno o perlomeno volevo convincermene. Non sono mai stato un irascibile ed infatti non ero per nulla arrabbiato. Ero, piuttosto, triste, mesto, affranto. Dentro di me la speranza di esser assolto veniva meno giorno dopo giorno fino a spegnersi definitivamente dopo un anno di prigionia. La mia unica gioia erano i trenta minuti settimanali nei quali potevo incontrare e vedere parenti ed amici, seppur ammanettato e sorvegliato da una dozzina di guardie. A farmi visita erano sempre le solite persone: i miei genitori si presentavano tre volte al mese, così come i miei fratelli. Tuttavia, una volta ogni tanto mi facevano visita parenti più lontani o amici che tenevano a vedermi. Ero contento di sapere che anche qualcuno al di fuori della mia famiglia mi volesse bene. Terminati quei brevi, ma intensi minuti, la mia vita tornava alla disgustosa routine di un carcerato desolato. Ma un giorno, il giorno 4379, ebbi una piacevole sorpresa. “Signor Bonato, abbiamo una lettera per lei”. Una lettera? Per me? Aprii frettolosamente ed impazientemente la busta che conteneva quel misterioso foglio di carta. Cosa ci poteva mai essere scritto? Chi mi avrebbe scritto una lettera? Perché? Ero entusiasta. Iniziai a leggere. Lessi tutta la lettera, ma arrivato ad un certo momento uno strano e inspiegabile punto interrompeva il testo lasciandolo inconcluso. Guardai se per caso quella missiva fosse stata strappata, se mi ero perso dei pezzi, o se magari ci fosse un secondo foglio nella busta, ma nulla. In fondo alla lettera non c’era nemmeno la firma dell’autore o dell’autrice. Rimasi deluso e amareggiato, ma, in fin dei conti, non diedi troppa importanza a quella lettera. Passò qualche giorno e la situazione si presentò di nuovo. “Signor Bonato, abbiamo una lettera per lei”. Ancora? Sebbene mascherassi la mia eccitazione con malcelata indifferenza, espressioni indifferenti, ero curioso di leggere una nuova lettera. La mia felicità fu, però, smorzata quando iniziai a leggere ciò che c’era scritto. Era la stessa identica lettera di pochi giorni prima. Andando avanti, però, mi resi conto che il discorso continuava rispetto a dove s’era fermato la volta precedente. Così mi misi a leggere attentamente ciò che veniva di seguito. Proprio sul più bello, però, un nuovo punto rovinò di nuovo il tutto. Controllai di nuovo tutto il possibile così come la volta precedente, ma con gli stessi identici risultati: niente strappi, niente firme, niente di niente. Ero nervoso. Ero impaziente di sapere chi avesse scritto quelle lettere e soprattutto la fine di quel dannato discorso che per la seconda volta rimaneva inconcluso. La situazione cominciò ad essere un appuntamento fisso della mia settimana e, dopo qualche tempo, della mia quotidianità. Ogni volta, però, si ripeteva la solita solfa. Quel ‘Punto’ iniziò ad essere il tormento della mia vita. Non dormivo la notte, ero assente di giorno e pensavo solo e solamente a quel Punto che ogni volta mi rovinava la giornata. Un giorno, però, non credetti ai miei occhi. La lettera che ricevetti quella mattina sembrava veramente andare in fondo alla questione. Non potevo crederci. Avrei scoperto chi si celava dietro a quel misterioso punto? Avrei avuto delle risposte da quel discorso interminabile che mai arrivava ad una conclusione? Cavolo, no! Si ripresentò quel Punto che tanto avrei voluto non vedere più. Girai la lettera, guardai nella busta, ribaltai tutto nella speranza di trovare una risposta. E proprio nel momento di maggiore disperazione trovai un bigliettino nascosto all’interno della busta. Lo aprii. “Guarda alla finestra”. Guardai. C’era un uomo. Da quel poco che riuscivo a vedere da quel piccolo buco vedevo un signore vestito elegantemente, in giacca e cravatta: aveva un’aria distinta e sembrava proprio mi stesse aspettando. Finalmente avrei potuto chiedere spiegazioni, avrei ottenuto delle risposte, avrei conosciuto chi si nascondeva dietro quella penna. Mi avvicinai. Dissi: “Buongiorno”. Un silenzio di tomba seguì il mio saluto. Dopo attimi interminabili nei quali rimasi immobile a fissarlo, finalmente si pronunciò: “Punto”. Scoppiò in una risata fragorosa e se ne andò. Scoppiai a piangere. Non piansi mai così tanto in vita mia. Ero disperato. Iniziai a tirare calci e pugnio al muro. Andai in bagno, ruppi tutto ciò che poteva essere distrutto. Poi, preso dalla rabbia e dalla follia decisi, precipitosamente, che dovevo mettere un punto alla mia vita, che ormai non aveva più senso di essere vissuta. Uscii dalla cella e corsi da un agente. Con una mossa fulminea gli rubai l’arma da fuoco. Me la puntai alla testa e urlando a squarciagola come uno psicopatico premetti il grilletto. Punto.
di Umberto Pagliari, il dodicesimo racconto
Fa piano, però, perché ci sente. Ma figurati, è privo di sensi. E invece ti dico che è così, qualche tempo fa ho letto su un articolo di giornale che quelli che si risvegliano poi si ricordano di quello che hanno ascoltato. Conoscevo Christine e credevo che questa fosse solo una delle sue follie, ma a ripensarci fui presa dall’inquietudine. Naturalmente tra noi calò il silenzio, e chi voleva dire qualcosa con questo ad ascoltare? Ma l’atmosfera già pesante dell’ospedale si fece ancor più opprimente ed entrambe cercavamo un modo per rompere la tensione. Lei mi diede una pacca sulla spalla, io vado, e si avvicinò al letto. È stato un piacere Lloyd: lo salutava sempre così da quel giorno, come se avesse intrattenuto una lunga conversazione con lui. Forse non ne avremmo avute più di occasioni, ne avremmo più avutao l’occasione di farlo da quando si era messo a dormire. Uscito dall’ospedale, sulla strada di casa, ripensavo a quel suo studio da tipico intellettuale in cui era solito ricevere gli ospiti, ma sapevo benissimo che era solo una copertura. Dopo la laurea, tutti si aspettavano che intraprendesse una carriera da magistrato, colui che giudica, ma alla fine scelse di fare il giornalista, colui che riporta solamente i fatti lasciando da parte la propria opinione, probabilmente la professione più adatta. Tutti quei libri di giurisprudenza, rilegati in pelle, uno più spesso dell’altro, esposti in vetrina, a qualcuno sembravano un po’ sprecati data la sua scelta lavorativa, ma riuscì comunque a guadagnarsi una certa reputazione. Sicuramente non era un inviato, o il proprietario di un giornale, la sua personalità non glielo avrebbe consentito, egli si limitava solamente a scrivere articoli, di qualità però, non come quelle scemenze che legge Christine.
Christine, Lloyd ed io uscivamo spesso, quando eravamo più giovani. Non facevamo nulla di speciale, solo ciò che altri tipici ventenni avrebbero fatto all’epoca. Pensavo sempre che lui era particolarmente gentile, lasciava sempre a noi due la scelta, non si intrometteva mai nelle conversazioni finché non fosse interpellato, e soprattutto non cercava mai di infilare la sua opinione in testa agli altri. Poi Christine ci dovette lasciare per andare per qualche anno a studiare all’estero; fu certamente un momento doloroso, ma io e Lloyd avemmo l'opportunità di avvicinarci ancor di più e io riuscii a capire meglio di che genere di persona si trattasse.
Un giorno mi chiese di assistere ad un’intervista, nel suo studio ovviamente. Non era niente di speciale, penso fosse una specie di questionario rivolto a tutti gli impiegati del giornale per chiedere la loro opinione su di un argomento che ora non ricordo, o qualcosa del genere. Fino a quel momento avevamo parlato soltanto di sciocchezze, e non l’avevo mai visto dire la sua con altri giornalisti, intellettuali, persone della sua specie, insomma. Quando gli posero la domanda, Lloyd si dilungò più che eccessivamente nell’introdurre la questione, descriveva nei minimi e più ininfluenti dettagli la situazione che gli era stata posta, come per perdere tempo. E ci avevo visto giusto, puntava ad essere il più impari possibile, e ancora mi chiedevo se facesse così con tutti. Quando ebbe finito questa ampia premessa, si mise ad esporre i pro e contro di ogni parte, in modo oggettivo e professionale, ma non aggiunse nemmeno ulteriori commenti, solo un piatto elenco. Era incredibile. Eppure ce l’aveva fatta, il suo tono saccente e quasi a volte sarcastico diede a tutti l’impressione di aver espresso un’opinione in modo subdolo e fra le righe, eppure non c’era nessuna prova a favore di questo. Tutti i giornalisti credevano di essersi fatti un’idea di quel che pensava e della parte per cui era schierato, eppure fra di loro non riuscivano a concordare su quale fosse. Anch’io stavo per cascarci, se non fosse che lo conoscevo da molto tempo e sapevo quali erano i luoghi comuni nel suo discorso. Era come se avesse illuso tutti, con una tecnica affinata negli anni.
Anche negli anni successivi, inoltrandoci ancor più nella vita adulta, continuò a comportarsi in questo modo. Preso dall’indecisione e forse dalla paura di sbagliare, senza mai esprimersi, lasciava che fossero gli altri a decidere per lui, truccati dalla sua superficiale intelligenza.
E fu proprio così che quel giorno, in seguito all’incidente, anche il suo corpo non sapeva più cosa fare, che strada prendere. Sta in bilico tra la vita e la morte, in coma, da tre anni.
di Sebastiano Perni, il dodicesimo racconto
«Ho un solo desiderio: che non vi vestiate di nero. Se volete inchinarvi all'uso, portate pure, ma per non più di tre giorni, qualche segno di lutto. Dopo ricordatemi, se potete, nei vostri cuori e perdonatemi.». Questo fu il testo dell'ultima lettera che scrissi ai familiari appena prima di partire da Napoli sul piroscafo della Tirrenia alla volta di Palermo. Sono nato a Catania il 5 agosto 1906. Ho seguito gli studi classici conseguendo la licenza liceale nel 1923; ho poi atteso regolarmente agli studi di ingegneria a Roma fino alla soglia dell'ultimo anno. Abbandonai seguendo il corso di fisica e nel 1929 mi sono laureato in fisica teorica sotto la direzione di Enrico Fermi. Ricordo perfettamente i miei giorni passati, in particolare il soggiorno tedesco in cui incontrai Werner Heisenberg, fisico tedesco fondatore della meccanica quantistica. Fu lui a convincermi a pubblicare "Über die Kerntheorie", testo sulla teoria nucleare pubblicato sul giornale di fisica. In quel periodo scrissi anche lettere ai genitori, raccontando dell'esperienza che stavo vivendo, di come sono stato accolto all'istituto di fisica, e soprattutto della persona di Heisenberg. Nel viaggio fui colpito dall'organizzazione tedesca, tanto che scrissi a mia madre la seguente lettera: «Lipsia, che era in maggioranza socialdemocratica, ha accettato la rivoluzione senza sforzo. Cortei nazionalisti percorrono frequentemente le vie centrali e periferiche, in silenzio, ma con aspetto sufficientemente marziale. Rare le uniformi brune mentre campeggia ovunque la croce uncinata. La persecuzione ebraica riempie di allegrezza la maggioranza ariana. Il numero di coloro che troveranno posto nell'amministrazione pubblica e in molte private, in seguito all'espulsione degli ebrei, è rilevantissimo; e questo spiega la popolarità della lotta antisemita. A Berlino oltre il cinquanta per cento dei procuratori erano israeliti. Di essi un terzo sono stati eliminati; gli altri rimangono perché erano in carica nel 1914 e hanno fatto la guerra. Negli ambienti universitari l'epurazione sarà completa entro il mese di ottobre. Il nazionalismo tedesco consiste in gran parte nell'orgoglio di razza. In realtà non solo gli ebrei, ma anche i comunisti e in genere gli avversari del regime vengono in gran parte eliminati dalla vita sociale. Nel complesso l'opera del governo risponde a una necessità storica: far posto alla nuova generazione che rischia di essere soffocata dalla stasi economica».
Al rientro seguì la notizia della morte di mio padre Fabio, a cui ero molto legato. Ma ciò che scosse completamente la mia vita e mi portò a scrivere quella lettera fu la scoperta il laboratorio delle proprietà dei neutroni lenti, scoperta che dette l'avvio alla realizzazione del primo reattore nucleare sperimentale, e successivamente alla bomba atomica a Los Alamos. Seguirono tre anni in cui mi chiusi in casa a lavorare per ore senza uscire mai, studiando in maniera furiosa tanto da essermi stato diagnosticato un esaurimento nervoso. Non volevo incontrare e comunicare con nessuno, solo concentrarmi sul mio studio. Respinsi tutte le lettere che mi arrivarono eccetto quelle di mio zio Quirino, con cui parlavo e discutevo sulle mie ricerche. Fu questo il periodo più buio della mia vita, ma alla fine capii. «La fisica è su una strada sbagliata. Siamo tutti su una strada sbagliata»
di Alessandro Mancini, dodicesimo racconto
Avevo caldo. Quel fuoco così accesso creava nella stanza un calore che quasi toglieva il fiato, ma d’altro canto la grossa fiamma illuminava le pareti di un rosso molto acceso, piacevole da vedere. Decisi di andare fuori a prendere una boccata d’aria, lasciando Daisy sola nella stanza. Ci conoscevamo ormai da 11 anni. Ne avevamo passate di ogni insieme. Prima di lei avevo avuto al mio fianco solo ragazze di cui, in tutta sincerità, non mi importava molto. Trattavo tutti, ragazze e non, come se fossero solo sassi con cui mi divertivo a giocare lungo il sentiero. Quando uno di essi usciva di strada, non ci mettevo molto tempo a trovarne un altro con cui intrattenermi durante il percorso. Quello stesso percorso che 11 anni fa, per lavoro, mi portò a Brescia. Avevo da poco finito gli studi universitari; mi ero laureato in ingegneria gestionale al Politecnico di Milano. Pur non impegnandomi al massimo, riuscii a prendere un ottimo 95 alla mia tesi di laurea. L’opportunità di lavorare a Brescia si presentò quando un amico di mio padre venne a sapere di me e del fatto che fossi fresco di laurea. Quell’uomo era proprietario di una piccola azienda siderurgica che produceva lavandini e sanitari. Dopo un breve colloquio, decise di assumermi come controllore della catena di produzione, nonostante la mia giovane età. I primi mesi a Brescia furono di adattamento. A volte nel week-end andavo a prendere un aperitivo o a fare serata con due miei ex compagni di università, che per puro caso avevano trovato come me lavoro in quella città. Proprio una notte, tornato a casa da una bevuta in loro compagnia, entrai nel mio appartamento e mi accorsi che era stato svaligiato. I malviventi mi avevano portato via molto denaro e il mio computer, oltre a qualche giacca che tenevo nell’armadio. Rimasi scioccato. Decisi di non uscire più di casa, se non per lavorare, e di tenermi un coltello sotto il cuscino, nel caso qualcuno provasse ancora a fare irruzione in casa mia. Passato qualche mese, però, mi accorsi che lo stare sempre in casa nel mio tempo libero, ovvero il fine settimana, oltre che essere noioso era anche poco salutare, visto che, non sapendo che fare, passavo la maggior parte del tempo a mangiare cibo spazzatura che prendevo al supermercato o che ordinavo da Just Eat. Ero ingrassato notevolmente. La mia famiglia, vedendomi notevolmente cambiato fisicamente, decise di regalarmi un tapis roulant. Grazie ad esso potevo cercare di fare esercizio e di ritornare in forma, senza però lasciare incuostudito il mio appartamento. Passato qualche tempo cominciai a diminuire di peso; ma se esternamente le mie condizioni stavano migliorando, purtroppo non si poteva dire lo stesso della mia psiche: per la prima volta nella mia vita sentivo la mancanza di una compagnia. L’idea di tornare a uscire nel fine settimana era da scartare, sia perché la voglia non era molta, sia perché i miei due unici amici in quella città se ne erano andati, poiché l’azienda in cui lavorano aveva chiuso i battenti. Questo escludeva automaticamente anche il provare a trovare una ragazza, perchè andare nei locali e provarci con la prima tipa carina non mi era mai piaciuto molto, soprattutto se nel locale mi trovavo da solo, senza una spalla che mi avrebbe potuto aiutare. Durante una seduta di tapis roulant di sabato sera mi venne però in mente un’idea geniale, quella di prendere un cane. Avevo sempre avuto dei cani quando abitavo con i miei genitori e li adoravo, perché erano degli animali che portavano compagnia, ma anche sicurezza. Il giorno seguente andai al canile più vicino. I cani in quel posto erano in prevalenza stati abbandonati, oppure erano dei trovatelli. Non avevo richieste di razza particolari e nemmeno problemi di grandezza, visto che il mio appartamento godeva di un notevole spazio. Tutti i cani di quel posto mi abbaiavano contro. Probabilmente cercavano solo di ottenere la mia attenzione, ma il loro comportamento, per un motivo sconosciuto, mi turbava un poco. Cominciai a ricredermi sul fatto di prendere un animale da compagnia. Stavo per andarmene, quando all’improvviso notai, in una gabbietta in fondo al corridoio, un cucciolo di labrador, che tranquillo stava bevendo dalla ciotola. Mi avvicinai. L’animale non abbaiò, ma anzi alla mia vista cominciò a scodinzolare. Capii che era il cane giusto per me. Dissi allo staff del canile che era quello il cane che volevo. Scoprii che si trattava di un labrador femmina di 3 mesi. Dopo qualche giorno la portai a casa. Decisi di chiamarla Daisy, come la variante di margherite che mia madre teneva sul balcone di casa.
Decisi di rientrare in casa dopo aver raffreddato un po' la mia temperatura e mi stesi vicino a Daisy. Dal suo respiro pesante notai che si era addormentata. Pochi minuti dopo lo feci pure io.
SECONDA PUNTATA.
1°AELE, tema libero. Molti ragazzi raccontano il momento che stiamo vivendo. O la nostalgia della "normalità".
IL MARE
La Sardegna nei miei occhi ha lasciato il colore del suo mare
Che in un solo secondo potrei colmare
E in un solo giorno domare
Perché il mio silenzio assordante
Ha portato via la mia onda in un istante Diego B.
Maltempo
Mi guardo, seduto su questa sedia
così piccolo e insignificante,
riguardo, fuori dalla finestra,
Vento,
Pioggia,
lavano le strade deserte, e
insieme affoga il desiderio
di tornare a
vivere.
Di questa poesia mi resta
quel nulla di un assordante silenzio. Luca B.
Dentro me
Di giorno sono un giocatore,
di notte un peccatore.
La mia vita gira dentro uno schermo,
mentre indosso un elmo.
C’è più vita nello schermo
che dentro me.
A volte per star meglio devo dire no.
Una volta mi sono innamorato
e il mio cuore si è infranto.
Non so più chi sono,
sembra solo un abbandono.
Di notte mi trasformo,
io e i miei fra siamo come uno stormo. Nicolò
PRIMAVERA
COME SULLA TELA DI UN PITTORE
LA NATURA CANCELLA IL SUO GRIGIORE
E SI RIVESTE DI COLORE.
IL RAMO DI PESCO SI DIPINGE DI ROSA
E NEL CIELO AZZURRO
IL TIEPIDO SOLE RISCALDA
OGNI COSA.
PRIMULE E VIOLE SI AFFACCIANO
ALLE TERRAZZE E AI BALCONI
DANDO VITA AD UN ARCOBALENO DI MILLE COLORI.
SI SENTONO IN LONTANANZA
LE VOCI DEI BAMBINI
CHE GIOCANO ALLEGRI E SPENSIERATI
NEI GIARDINI E NEI CORTILI.
IL LUNGO GIORNO LASCIA IL POSTO
ALLA TIEPIDA SERA
ECCOTI, BEN TORNATA PRIMAVERA. Matteo
Il buio .
Il buio mi avvolge lentamente
silenzioso come il vento
ma mi sento comunque protetta
e mi lascio vagare
nel buio
dei miei pensieri. Alice
Mi astengo dal tempo che passa,
silenzio dentro la stanza,
soffoco, è la paura che comanda e rinvia,
rimanda,
il tempo che ormai non passa.
Penso e ripenso,
senza senso
per quel che succede adesso, gente
muore anche dentro.
Nel panico del momento, lo sento, lo avverto
qualcosa non va, e non mi pento di cose già fatte che rifarei
tuttora, e qua la gente soffre ora. Valerio
Le 4 stagioni.
Il freddo ormai è passato
Ed un fiore è già sbocciato.
La primavera è alle porte
È in arrivo la buona sorte.
Arriva il caldo, arriva il sole
Arriva il periodo dell’amore.
È tempo di ferie, è tempo di mare
È tempo per tutti di viaggiare.
Cadono le prime foglie, scende la tristezza
Ecco l'autunno con amarezza.
Addio caldo, addio sole
Resta solo il vino a rallegrare l'umore.
Torna il freddo, torna il gelo
Torna l'inverno e il grigio in cielo;
Vi sono molte feste e tutti sanno
Che a metà inverno finisce l'anno. Riccardo
Mondo
Il mondo,
E’ una brutta bestia,
Colmo d’ignoranti.
Io, un ragazzino
Con la testa
Dai sogni grandi.
Voglio andarmene via
Lontano da questa ipocrisia. Alessio
Ma
Sei più di quanto mi aspettassi
Sapevo già che brillavi
Ma non pensavo mi accecassi Mr A.
Pioggia
La donna guardava nella vetrina
ad un tratto cominciò a cadere della brina,
mentre si puliva gli occhiali
sentì dietro di lei dei rumori strani;
una volta giratasi vide un uomo
con la faccia simile ad un uovo.
E mentre estraeva qualcosa
la donna capì e cambiò all'istante la sua posa,
ma ormai era già troppo tardi
si sentì solo il rumore dei petardi.
E intanto iniziarono a scorrere delle gocce,
erano rosse,
proprio come il rossetto che aveva messo quella notte. Mr S.
Limite
Creatura precisa e delicata,
forte e priva di rimorsi.
Egli è immortale ma riducibile,
ci si avvicina ma se si tenta di superarlo.
Si muore. Mattia T.
La paura.
La paura è il sentimento
Più forte del nostro essere.
Non si può scappare,
Nera come il buio, infinita come l'universo.
Ma si può alleggerire questo peso
Con tanta gioia e pensieri positivi.
Ma se non stai attento,
Prenderà il predominio,
Per poi rovinarti e lasciarti nell'ombra.
Questa, è la paura. Lorenzo
La vita è come una palla da calcio:
Bisogna sempre combattere
Per ottenere dei risultati. Mattia C.
Amore complicato.
Un amore complicato,
un finale già svelato.
Speri sia speciale
ma di sicuro farà male.
Io continuo a sperare,
ma forse è meglio sognare.
Di sicuro soffrirai,
ma se non provi,
non lo saprai mai. Simone
Il calcio.
Il calcio per me è tutto.
Il calcio trasmette brividi
come un campo mette i lividi.
Non mi importa se perdo o vinco
il calcio viene prima di tutto, anche se mi spezzo uno stinco.
É una sensazione indescrivibile
come una fiaba illeggibile.
E non mi importa quando tutto crolla
come un terremoto in una zolla.
La pelle che si bagna di sudore
e una Vittoria con amore.
Mentre il pubblico il tifo ci farà
la nostra squadra vincerà. Gabriel
Quarantena, per stare più al sicuro
Quarantena, con le strade colme di un silenzio assordante
Quarantena, lunghe giornate che mi fanno riflettere
Quarantena, stare di più in famiglia
Quarantena. Filippo
Il sorriso.
Il sorriso è la prima cosa che avviene al mattino.
É quell'emozione che rianima ogni bambino,
una giornata di primavera che mi rallegra fino a sera.
Il colore bianco dei denti
un sorriso
steso su tutti i miei parenti.
Una giornata nuova arriverà
chis chis
un altro sorriso mi aspetterà. Miriana
Le rose sono rosse,
non sono un fotografo e faccio le foto mosse.
I girasoli sono gialli,
alla mattina cantano i galli.
La viola è viola,
mi sono fidanzato con una spagnola.
La margherita è bianca,
mi sento stanco, mi riposo su una panca. Mr X