IL CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI
1) Se hai scelto di leggere IL CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI svogli questa attività:
Cerca di comprendere lo schema narrativo che usa Calvino: come sai i personaggi del romanzo si ritrovano muti nel castello e desiderano narrare le storie delle avventure che li hanno condotti in quel luogo. Usano pertanto i tarocchi per raccontare la storia senza parlare.
Questa tecnica di Calvino si chiama "letteratura combinatoria" ed è in qualche modo legata all'informatica.
Procedi in questo modo: scegli sei tarocchi dal mazzo dei tarocchi di Marsiglia qui rappresentati https://it.wikipedia.org/wiki/Tarocchi_di_Marsiglia, racconta la tua storia (in terza persona)
UNA STORIA DI CORAGGIO, FIDUCIA E DOLORE
Mattia Bertoni
Le mani dei commensali si muovevano con frenetica invadenza nel tentativo di impossessarsi delle carte necessarie per terminare i propri racconti, creando un groviglio silenzioso: l'unico rumore udibile era il fruscio dei pregiati tarocchi che sfregavano il lungo tavolo antico. Una sagoma era però rimasta impassibile a quella confusione, come se insieme alla voce avesse perso anche le sue funzioni motorie. Avvolto da un ampio mantello blu notte, si potevano a malapena intravedere uno spigoloso mento ricoperto di un'incolta barba bianca. Improvvisamente egli batté un pugno sul tavolo che immobilizzò magicamente i commensali, come per richiedere attenzione, e iniziò il suo muto racconto. La mano serrata si aprì lentamente, rivelando uno degli arcani più ambiti: "La Stella". Corpo celeste giovane e luminoso, la carta pareva alludere alla sua origine misteriosa: figlio di una vergine e di uno spirito, fin da bambino diventò famoso per la sua chiaroveggenza e i suoi straordinari poteri di mutare la forma propria e quella altrui.
L'anziano alzò lo sguardo, mostrando occhi color blu ghiaccio, perforati dalla pupilla color pece. La mano destra, ancora nascosta, raggiunse l'altra poggiata sul tavolo, aprendosi anch'essa lentamente e mostrando il tarocco "La Torre", che iniziava ad intravedersi tra le lunghe dita, affusolate come rovi che avvolgono un tesoro prezioso. Il suo nome era Merlino, ultimo superstite della dinastia dei maghi destinato a proteggere il figlio di Uther Pendragon di nome Artù, futuro erede al trono di Camelot e fondatore del regno di Albion. La torre spezzata significava però una minaccia alla sua realizzazione.
Gli occhi dei commensali, tutti concentrati a cogliere il significato di quei tarocchi, non colsero la contrazione dolorosa sul viso del vecchio stregone, causata dallo sforzo emotivo di rivivere la sua storia. Fece un respiro profondo e procedette con il tarocco seguente: "Il Cavaliere di spade", che rappresentava un cavaliere dalla folta capigliatura bionda mentre impugnava una lunga spada, a cavallo di un bianco e fiero destriero. Il giovane Artù spiccava sugli altri per l’eleganza dell’equipaggiamento: la sua armatura era tutta di un colore blu pervinca su cui risaltavano il pettorale e gli schinieri dorati. La battaglia infuriava; il prode cavaliere si buttò proprio nel mezzo. A fil di spada gli eserciti opposti si aprirono la strada uno nell’altro come in una ferita sanguinante.
U na sola domanda era tuttavia comune ai presenti: “Chi era il nemico che minacciava il giovane erede al trono di Camelot?”. Il vecchio si fermò, le mani che si toccavano l'un l'altra solamente con i polpastrelli, come per meglio concentrarsi nella scelta del tarocco successivo. Dopo qualche secondo, lasciando tutti di stucco, ecco calare l’arcano "Il Diavolo". Un’orrenda creatura con ali di pipistrello ed estremità uncinate come artigli. Ai suoi piedi, due esseri insieme umani e animaleschi, al servizio del Maligno o per meglio dire della regina della malvagità: Morgana Pentagron. Giovane donna dagli occhi di smeraldo, Morgana era una potente strega e sorellastra di Artù. Si era allontanata dal regno di Camelot a causa del padre Uther, diventato feroce persecutore della magia. Il suo rancore era cresciuto fino ad esplodere in odio e desiderio di distruzione. In quel momento tutti i commensali capirono: Merlino doveva proteggere Artù da questa oscura minaccia.
L’ansia di conoscere il seguito della narrazione cresceva ma il vecchio mago non si fece prendere dal loro entusiasmo, proseguendo con una ricerca lenta ed accurata del quinto tarocco. Una volta individuato, lo prese e lo portò solennemente vicino al volto stropicciato, mutando la sua espressione in una sorta di sorriso di gratitudine verso quella carta che scoprì sul tavolo. Si trattava dell'"Asse di spade". Per sconfiggere l'esercito dei morti viventi inviato da Morgana verso Camelot non bastavano gli incredibili poteri di Merlino e un esercito reale equipaggiato di tutto punto. L'unica spada in grado di opporsi alla vendetta della strega era Excalibur, brando forgiato con il fuoco del grande drago Kilgharrah ed estratto dalla roccia dal futuro re di Albion. Lo scontro infuriava: profondi boati si udivano nel cielo illuminato a sprazzi da bagliori accecanti. L’affusolato ferro pareva avere vita propria e trascinare il braccio del suo possessore, trafiggendo le solide armature che si arrendevano ai suoi fendenti. Scansando l’ululato dei nemici, Artù perlustrava i confini del campo di morte. Al lume della luna, brillava vittorioso l’azzurro siderale di Excalibur.
Il vecchio narratore si fermò come se stesse decifrando lui stesso nei tarocchi una storia ancora troppo dolorosa per essere rivelata. Le mani tormentavano ostinatamente la canuta barba: Merlino non voleva scoprire l’ultima carta: "La Morte", signora dall’aspetto cadaverico, raffigurata come donna che trascina con andatura lenta ma instancabile la sua falce, la cui lama miete indiscriminatamente, senza ingiustizie o favoritismi che il denaro non potrà mai comprare. Non c’era da illudersi che le cose fossero andate diversamente. Mentre l’esercito nemico era stato sbaragliato da un giovane re ed una potente spada, Morgana sola nel fitto bosco al di fuori delle mura di Camelot, era in ascolto di ogni singolo scricchiolio di foglie, mascherato da violente raffiche di vento che si infrangevano sugli umidi tronchi e sulle scure chiome. Individuato il suo nemico, la strega gli tese un vile agguato, riducendolo in fin di vita. Proprio quando le palpebre di Artù stavano per serrarsi e l’anima abbandonare le ormai fredde membra, Merlino, pronunciando un’incomprensibile frase, lo salvò. Le ferite si richiusero, i lividi scomparirono ed il cuore riprese a battere. Ora Artù poteva fondare il glorioso regno di Albion.
Le città invisibili
Bertoni Nicolò 4d inf
La città di Desideria
La città di Desideria è circondata da alte mura che la separano dal resto del mondo. Tutto è fatto di cristallo. Durante l'alba, il sole si riflette in qualsiasi punto della città, rendendola simile a un grande diamante ambrato. Al tramonto la città si trasforma in un luccicante rubino che risplende di un bagliore intenso e incandescente. Le sue strade sembrano scavate nel quarzo; le case, incatenate tra loro, formano un enorme origami a foggia di stella. Le piazze sono deserte, tutti i piedistalli vedovi. Le statue emigrate verso luoghi dove possono essere ammirate. Desideria è una città dell’assenza.
I suoi abitanti non hanno nome, nessuno li ha mai chiamati e non sanno nominarsi. Passano la vita chiusi nelle loro abitazioni, davanti a sfarzosi specchi che riflettono il desiderio di ognuno al raggiungimento della felicità. Il nome della città, infatti, significa mancanza di stelle, nel senso di avvertire l’assenza di qualcosa che rende completi.
Gli abitanti trascorrono la loro esistenza in una dimensione parallela che li raffigura nel momento della realizzazione dei loro sogni. Questi possono essere ricchezza, potere, bellezza e successo. Tale riflesso è però illusorio, un inganno che porta a consumarsi senza agire.
I desideri crescono fino a diventare un’esigenza incontrollabile da soddisfare. Le persone invecchiano vivendo di una felicità riflessa ed inesistente. Si creano, così, folle di persone incantate davanti allo specchio, alla ricerca di qualcosa di irraggiungibile.
L’unica speranza di questa città sarebbe l’arrivo di uno straniero venuto da lontano che frantumi un primo specchio: così come le tessere del domino cadono spinte l’una dall’altra, si creerebbe una reazione a catena capace di liberare gli abitanti dal loro inconsapevole sortilegio.
Fino ad allora, Desideria, città ingannatrice, è silenziosa: tutto apparentemente si muove, ma in realtà rimane fermo.
“Il vecchio e il mare” dal punto di vista del marlin
di G.P. 4dinf
I raggi del sole di settembre colpivano la superficie del mare senza raggiungere il marlin in cerca di cibo nelle acque profonde e lontane dal porto. Pensava che nessuno di quegli esseri senza branchie e senza pinne si sarebbe spinto così a largo e così in profondità. La sua ricerca di prede stava andando male, aveva trovato solo pochi pesciolini dispersi e qualche carcassa. Affamato, il marlin decise di salire e per sua gioia trovò dopo poco delle prede: erano ammassate l’una sull'altra e, non capendo, decise di avvicinarsi. Pensò che fosse una trappola arichettata da quegli esseri... ma quando fu abbastanza vicino da scorgere la lenza, concluse: “Basta stare in guardia”
Cominciò a tastare, si allontanò un paio di volte e tastò di nuovo.
Sembra tutto apposto, pensò. Non si sono spostati e non hanno reagito.
Era molto affamato e quelle sardine erano fresche, non avrebbe potuto lasciarle lì, 'd'altronde sembra sicuro e gli esseri della superficie non sembrano essersi accorti di me, giusto?'. Iniziò a mangiare e a dirigersi verso il fondo allontanandosi. Uno strappo forte e il dolore in bocca lo misero in guardia: era stato preso.
Era già successo in passato, ma era sempre riuscito a scappare portando a largo il più possibile la barca aspettando la resa dei pescatori per via del tempo atmosferico o della corrente.
Meglio agire con prudenza, mi hanno già ingannato una volta, pensò il marlin nuotando dalla parte opposta della costa.
Arrivò la notte e il marlin trainava ancora la barca.
Potrebbe essere uno solo l’essere in superficie, pensò; fossero stati anche solo in 3 o 4 probabilmente avrebbero provato a tirarmi su.
Era stranito e stupito dalla forza di volontà e dalla resistenza dell'essere in alto, anche con il freddo della notte e la lontananza dal porto non si era mosso e non sembrava intenzionato a muoversi.
“Anche io sono resistente, non mi arrendo, soprattutto se il mio avversario è degno di me”
Passarono 2 giorni e 2 notti e il marlin era stanco: non aveva mangiato e aveva provato a strattonare la lenza e salire un po' senza ricevere colpi o altro.
“Come può essere che uno soltanto di quelli sia riuscito a stancarmi così, immagino che anche lui non sia messo bene”
Quanta tenacia possono possedere quei bipedi per resistere a strattoni e salti, pensò.
Non aveva mai incontrato un umano con così tanto coraggio e fiducia in se stesso da resistergli così tanto tempo e il marlin aveva capito che la sua ora era vicina, era stanco e sapeva che se non fosse stato ucciso da lui, un gruppo di pescecani lo avrebbe assalito. Non sopportava i pescecani: violenti e aggressivi, privi di raziocinio, sbranano e mutilano la preda lasciando la carcassa senza nemmeno la testa.
Aveva trovato alcuni suoi esemplari senza vita affondare dopo essere stati mangiati da quelli.
Preferisco combattere e perdere contro il coraggioso lassù, pensò.
Si diresse verso la superficie e cominciò a girare in tondo, aspettando solo che il figlio della terra decidesse cosa fare.
Questa volta i raggi del sole di settembre erano riusciti a raggiungere il dorso a strisce viola del marlin.
5blsa 2021-22
Attività dopo la lettura de "La coscienza di Zeno"
Racconta il capitolo LA MORTE DI MIO PADRE dal punto di vista del padre di Zeno
In comune con mio figlio avevo solamente il sorriso di compiacimento che ci distingue dagli altri, e le scarse capacità in materia di commercio, in quanto i miei affari, nonostante mi regalassero la fama di abile commerciante, erano diretti tutti dall’Olivi. Criticavo a mio figlio due cose: la distrazione e la tendenza a ridere delle cose più serie. Per quanto riguarda la prima cercai di imporgli una delle mie abitudini, ovvero di segnare le cose che doveva ricordarsi su un taccuino, e di rivederle più volte al giorno, ma non lo fece. Mentre per il secondo dei suoi problemi non tentò nemmeno di cambiare, basti pensare che una volta, in seguito ad una mia esclamazione contro di lui, in cui lo definivo un pazzo, andò dal medico e lo ingannò, riuscendo ad ottenere una certificazione che constatasse quanto gli avevo detto. In quel periodo non cessavo di pensare alla morte, e, di fronte a questi pensieri, dovetti scrivere il testamento, con il quale, preoccupato dal futuro di mio figlio, decisi di porlo sotto la tutela dell’Olivi. Non fidandomi pienamente di mio figlio lo costrinsi a promettere che non avrebbe mai tentato di sminuire la facoltà dell’Olivi. Quella sera decisi di aspettare mio figlio per cena. Non avevo un gran appetito, ma sentivo la necessità di stare con mio figlio e di parlare con lui. Mi disse che era tornato a casa per quell’ora perché aveva discusso delle origini del Cristianesimo con un suo amico. Gli chiesi se anche lui stava iniziando a provare interesse nella religione, come stavo facendo io, ma rispose che in quanto studioso la trattava solo come uno dei tanti fenomeni da analizzare. Nonostante la leggera seccatura causata da questa risposta cercai di dirgli che giunto alla mia età sentivo la grandezza e l’importanza della mia esperienza, ma non ero in grado di tramandargliela come avrei voluto fare. In particolare, sentivo la necessità di raccontargli qualcosa, ma non riuscivo a formulare un discorso chiaro e lineare. Lui iniziò a dubitare del mio stato di salute, mi chiese varie volte se stessi bene, ma risposi sempre che mi sentivo solamente stanco, tanto che decisi di andare a letto per riposarmi, sperando di trovare le parole giuste da utilizzare il giorno seguente. Quella notte mi sentii male, iniziai a gemere dal dolore, persi l’udito, poi divenni completamente insensibile. Maria e Zeno, disperati, chiamarono il dottor Coprosich, il quale, un anno indietro, mi prescrisse dei farmaci che decisi di non prendere, a causa delle mie opinioni negative sui medici e sulla medicina in generale. Il dottore mi applicò le mignatte, dicendo a Zeno che avrei recuperato parzialmente la coscienza, ma senza aver possibilità di guarigione. Fu così, recuperai un briciolo di coscienza, non abbastanza per comprendere la mia situazione, e alternai momenti di ripresa a momenti di delirio. Nonostante le continue raccomandazioni del medico, che consigliava di farmi stare coricato per aiutare la circolazione, passai gran parte del tempo a spostarmi dal letto al sofà. Un giorno Zeno, ascoltando il dottore, tentò di impedirmi di alzarmi, ma io urlai:”Muoio!”. Lui, spaventato, mi lasciò, io, invece, mi alzai, e feci cadere la mano sulla sua guancia, come se volessi tirargli uno schiaffo. Poi caddi per terra, e mi decretarono morto.
Andrea Portesani, 5blsa
Racconta "la storia del mio matrimonio" dal punto di vista di Augusta
Era un pomeriggio fosco e freddo d’autunno ed eravamo da poco tempo ricasati da un prolungato soggiorno in campagna quando dovetti distogliere l’attenzione dalla mia lettura per porgere i saluti ad un uomo da poco entrato nel salotto.
Avevo bene a mente chi fosse, Zeno Cosini, nostro padre ci aveva avvisate di una sua probabile visita.
Seduta sul divano con la piccola Anna sulle gambe ascoltai l’ospite che, dopo un momento di iniziali formalità, ci stava intrattenendo con storie alquanto bizzarre.
Il giovane uomo prese a farci visita tutti i giorni intrattenendosi in particolar modo con la sottoscritta.
Passavamo il tempo suonando, l’uno con il violino e l’altra al pianoforte, accompagnandoci a vicenda. Apprezzavo il suo impegno nel suonare, nonostante sapesse di non essere molto abile, tanto da proporgli di approfondire le nostre suonate, a cui dovette sfortunatamente rinunciare data la noia espressa dal volto di mia sorella.
Devo ammettere di aver pensato di non aver mai conosciuto un uomo tanto altruista, così cortese da porre fine a un proprio divertimento per garantirne uno altrui.
Ogni sua visita era accompagnata da un mazzo di fiori per ognuna di noi e dalle continue storie autobiografiche, che di reale parevano avere ben poco, ma che riuscivano sempre ad intrattenermi e a volte addirittura anche a commuovermi.
Capitò che per tre volte al suo arrivo mia sorella Ada non fosse in casa, dovemmo inventare una scusa e rimasi piacevolmente sorpresa quando decise di prolungare la sua visita più del solito.
Nostra madre continuava a farmi notare una preferenza del signor Zeno nei miei confronti e, nonostante continuassi a negare, essendo pienamente cosciente della bellezza delle altre mie sorelle, che avrebbero sicuramente avuto più successo di me agli occhi di un giovine, dopo quel giorno un barlume di speranza si fece presente e dovetti ammettere di essere stata io stessa sin da subito colpita da quell’uomo dalla lusinga sempre pronta.
Passarono alcuni giorni senza alcuna notizia del signor Zeno, fino a quando non si unì a noi una sera.
Era venuto a farci visita un eccellente violinista, Guido, che come intrattenimento serale aveva proposto l’invocazione di alcuni spiriti.
Il rito era già iniziato ed eravamo tutti posti al buio della stanza; rimasi per questo piacevolmente sorpresa quando sentii qualcuno parlare rivolgendosi alla sottoscritta e ancor di più quando realizzai che questo qualcuno fosse Zeno.
Devo con rammarico ammettere che la contentezza di rivederlo dopo alcuni giorni di assenza venne presto sostituita da un forte imbarazzo non appena sentii cosa il signore avesse da dire.
Mi era stata da lui avanzata una dichiarazione d’amore indirizzata però alla persona sbagliata, ovvero a mia sorella Ada.
Non potei ovviamente far altro se non stargli vicina promettendogli di mantenere il segreto e cercano di dissuaderlo dall’idea di confessare nuovamente il suo amore, questa volta alla persona corretta.
Ma furono sforzi inutili.
Lucia Cosenza 5blsa
3blsa a.s. 2019-2020-gennaio 2020
leggete gli 11 racconti di Piccoli equivoci senza importanza di Antonio Tabucchi: apprezzate lo stile, la simmetria narrativa e la visione della vita dell'autore. Poi scrivete, cercando di imitare lo stile e la struttura dei testi di Tabucchi, il dodicesimo racconto...
Il dodicesimo racconto di Lucia Cosenza
Una delle ultime foglie d’autunno stava raggiungendo il suolo proprio in quell’istante.
Probabilmente eccitata per l’inizio di una nuova avventura, entusiasta di poter finalmente raggiungere le altre compiendo anche lei la consueta danza finale; apparentemente inizio di un’avventura.
Noi eravamo proprio come lei, pronte a rincorrerci l’un l’altra nella speranza di rincontrarci un giorno, per poter finalmente iniziare quella che pensavamo sarebbe stata la nostra vita, il nostro rinascere.
Eravamo fatte per stare insieme, l’una accanto all’altra, pronte a sorreggerci a vicenda.
Ci conoscevamo alla perfezione, ma eravamo ancora troppo immature per sapere a cosa saremmo andate incontro e, soprattutto, non era ancora autunno.
Eravamo acerbe come l’epoca in cui stavamo vivendo, piena di lotte per qualcosa che noi sognavamo troppo presto; ma alla fine si sa, i sogni infantili sono destinati a pochi, alcuni si rivelano semplici conclusioni e altri delusioni.
Aveva degli occhi che mi incantavano e che avevo riconosciuto per la prima volta solo dopo molti anni; degli occhi semplici ma brillanti di luce propria, luce che insieme alla sua anima si spense sempre di più fino a raggiungere le dimensioni di un lumino.
Era un desiderio eterno ma si sa, le foglie non ricadono nello stesso punto, l’una vicino alle altre, sono separate da agenti atmosferici, esseri viventi e molto altro ancora.
Pensavo fosse semplicemente bellissima mentre la guardavo disegnare un qualcosa a me sconosciuto mentre ogni tanto si distraeva guardando fuori dalla finestra; probabilmente stava disegnando qualcosa a lei molto caro, come di consuetudine, ma allo stesso riposto in un angolo oscuro della sua mente, annebbiato dal ricordo delle nozze con il marito o dal pianto del figlio in cerca di attenzioni.
Io di lei conoscevo molto, mi ricordavo tutti i particolari, tutte le emozioni anche se premature che aumentavano i battiti del mio allora piccolo cuore; e anche se ero sicura che lo stesso valesse per lei, un giorno mi spiazzò, mi lasciò senza la speranza di cadere leggiadramente ma solo di precipitare.
Mi ritrovavo in viaggio con colui che avrebbe dovuto rappresentare il centro del mio universo, e a tratti effettivamente lo era, ma un’onda di vecchi sentimenti finiva sempre con l’adombrare la mia mente.
Avevo deciso di intraprendere questa avventura per dimenticare, per essere innocente e per molto altro ancora ma, quasi come se fosse uno scherzo del destino, mi ritrovai di nuovo ad essere una silenziosa spettatrice, con la voglia di urlare ma trattenuta da un potere superiore, qualcosa che per me era sconosciuto o per meglio dire, speravo che così fosse.
Quello che mi stava accadendo era ben evidente; si ha continua speranza in qualcosa che ha lasciato un segno in noi, che rimarrà per noi memorabile ma non sempre è così, basta trovare il giusto equilibrio e dimenticare quale sia la vera felicità per accontentarci e, in fondo, è un po’ quello che fanno tutti i bambini con sogni terreni, non condizionati dal loro volere.
A volte penso che tutto ciò valesse solo per me, temevo fosse stato solo un divertimento adolescenziale dettato dalla curiosità verso il nuovo e il pericolo; d’altronde, ricordo ancora alla perfezione cosa continuava a ripetermi nei momenti di lucidità, non siamo altro che un piccolo equivoco senza importanza in quello che sarà il nostro passato; o per meglio dire, ciò che avremmo seppellito in seguito a una scelta apparentemente banale e dettata dall’inquietudine che segnò per sempre le nostre vite.
Cappotto rosso di Ginevra Ghisalberti
Stavo camminando in quel parco che ormai conoscevo a memoria, avrei potuto percorrerlo ad occhi chiusi, conoscendo il posto esatto in cui il terreno era rotto dalle radici dei vecchi alberi che affioravano in superficie, i due spiazzi fangosi in cui una volta erano presenti due piccoli laghi in cui nuotavano tanti germani reali seguiti da anatroccoli. Sapevo dove d’autunno le foglie si accumulavano più spesso e i posti da evitare in primavera perché, essendo allergico al polline, avrei rischiato di soffocare per le troppe graminacee. E camminando mi guardavo in giro e vedevo un piccolo Armando che giocava con il suo migliore amico Enrico, vedevo noi due che giocavamo con le nostre barchette di carta nel laghetto, ci schizzavano e facevamo a gara a chi arrivava per primo alla vecchia quercia in fondo al parco. ‘La mia barca è più bella della tua, guarda come sfreccia’ mi disse Enrico. Lui era il più affascinante della classe, tutte le bimbe lo guardano sempre con desiderio mentre di me non si ricordavano mai il nome. Era furbo, sveglio, se finiva nei guai sapeva sempre come cavarsela, era abile in tutto quello che poteva essere considerato sportivo. Era la classica peste che, nonostante questo, agli occhi degli altri appariva come un tenero angioletto che riusciva sempre a strappare un sorriso. E io non ero altro che la sua ombra, lui era la mente ed io il braccio, se lui faceva un qualsiasi tipo di cosa io la facevo a mia volta, credendo che imitandolo sarei stato, per lo meno, un poco più apprezzato. E ora eccomi, nonostante i miei sforzi ero divento quell’uomo solo e noioso che da ragazzino giuravo non sarei mai diventato. Camminavo senza compagnia nel solito vecchio e noioso parco, non avevo mai scelto una destinazione diversa per le mie passeggiate pomeridiane, forse perché quel parco un po’ mi rispecchiava. Nessuno se ne prendeva cura, era poco popolato, le persone che lo conoscevano erano del posto. E io mi sentivo solo e triste come lo era il mio parco. Avvolto dai troppi pensieri che di certo non mi facevano del bene, ma rassegnato dal fatto che la mia mente viaggiava troppo e non potevo controllarla, andai a sedermi sulla solita panchina di legno ormai marcito, presi un po’ di tabacco dalla tasca e lo misi nella mia vecchia e usurata pipa. Fumare mi rilassava, riuscivo a dare un freno per qualche minuto alla mia mente che amava viaggiare. Chiusi gli occhi e non pensai più a niente. Sentivo il rumore del tabacco che bruciava, il fruscio delle foglie mosse dal vento e il mio respiro era regolare, tranquillo. Un profumo familiare mi fece tornare alla realtà, quel profumo che mi coccolava spesso nei momenti più tristi. Era il profumo delle pagine di un libro. Amavo leggere, mi rivedevo spesso nei protagonisti per il semplice fatto che le loro vite erano sempre più belle ed emozionanti delle mie. Aprii allora gli occhi e la vidi, una bellissima e apparentemente colta giovane donna. Leggeva un romanzo scritto con caratteri piccoli e quasi illeggibili. Mi accorsi però che la stavo fissando a bocca parte già da troppo tempo così la chiusi e senza controllare le parole le chiesi: ‘Ti da fastidio l’odore della pipa?’ E lei dolcemente mi rispose di no. Aveva gli occhi grandi e una voce molto calda. Mi piaceva. E dal modo in cui mi guardava con quei suoi occhioni sembrava che magari, un poco, forse le piacevo anch’io. Io sono sempre stato un tipo impacciato ed è proprio in situazione come quella che non mi sapevo comportare; così senza troppi complimenti mi alzai e me ne andai. Non volevo, io volevo restare vicino a lei e parlarle, ma le mie gambe senza controllo mi portarono via. Il giorno dopo tornai al parco con l’unica speranza di rivedere quella bellissima donna che mi aveva tenuto sveglio tutta la notte. E si, la trovai ancora su quella panchina, non ci volevo credere eppure era lì, davanti a me. Lei era bellissima, aveva dei lineamenti dolci, una bocca sottile e un naso alla francese. Gli occhi erano blu intenso e i capelli che le sfioravano e
contornavano il viso erano castano chiaro. L’avevo vista solo due volte ed entrambe le volte lei stava seduta, ma ero abbastanza sicuro che non fosse tanto alta. Era vestita in modo semplice ma sempre elegante e portava, entrambi i giorni, un cappotto rosso che le calzava a pennello e che però stonava un po’ con il mio color cammello, un po’ usurato e vecchio. Mi sedetti vicino a lei e riuscii pure a dirle un semplice e tremolante ‘ciao’ al quale lei rispose con un ‘ciao’ decisamente più sicuro e solare del mio. Sì, il suo ‘ciao’ è stato meglio del mio. Riuscii anche a chiederle come si chiamava, Alicia, era questo il suo nome. Era un nome bellissimo, particolare. Mi piaceva tanto. Mi presentai come Armando e iniziammo a parlare del più e del meno. Lei era tanto garbata nei modi di fare e riusciva a mettermi a mio agio. Io ero sempre il solito, un po’ timido e un po’ confuso. E il giorno dopo la trovai ancora lì, e così fu anche il giorno dopo ancora. Era bello come quell’incontro casuale divenne sempre più quotidiano, e come la mia noiosa e triste quotidianità, stando con lei, diventava interessante. Giorno dopo giorno e parlando sempre di più imparai a conoscerla bene quasi quanto conoscevo quel parco e con lei uscì il mio lato migliore, quello meno timido: ero riuscito a non pensare troppo alle cose da dire o da fare e ad essere, così, più spontaneo e ,credo, o almeno spero, più interessante. La dolce ragazza dal cappotto rosso aveva fatto breccia nel mio cuore e spesso mi ritrovavo incantato dalla sua voce, con gli occhi persi a guardarla. Mi sentivo un po’ un protagonista dei libri che tanto mi piaceva leggere e che ultimamente non leggevo più : la mia vita era diventata finalmente più interessante di quella di un qualsiasi personaggio inventato e letto su un libro. Passato quel freddo inverno era arrivata, come in un baleno, la primavera. Era sempre stato molto più lungo e noioso l’inverno mentre quest’anno era volato via, veloce. Era arrivata in un baleno la primavera e per questo motivo, quel pomeriggio, per andare alla mia panchina dovetti fare una strada diversa dal solito per evitare gli innumerevoli pollini. E una volta arrivato alla panchina non la vidi, non vidi il cappottino rosso che spiccava in mezzo al verde degli alberi e subito pensai che si era stufata di me, che avevo rovinato tutto.. ma no, mi calmai e capii che probabilmente aveva avuto un imprevisto. Il giorno dopo, pieno di speranza e di voglia di dimostrare a me stesso che non era successo nulla il giorno prima, andai di fretta al parco, ma, un poco me l’aspettavo e un poco speravo di sbagliarmi, lei non c’era più. Giorno dopo giorno, non vedendo più il cappotto rosso sulla panchina e non vedendo più la mia amata Alicia sorridermi e salutarmi con calore, capii che così velocemente come era iniziata, la nostra storia, se così si può chiamare, era già finita. Era colpa mia, probabilmente l’avevo fatta scappare. Ero stato egoista, la guardavo negli occhi pieni d’amore e invece che guardare lei, la sua anima e capire cosa pensava, vedevo il riflesso di un Armando finalmente realizzato e felice di poter condividere la sua quotidianità con una persona. Nonostante sapessi benissimo che non sarebbe tornata la aspettai per giorni, mesi, arrivó addirittura l’estate e mi domandavo cosa avrebbe indossato la bella Alicia se non il cappotto rosso che tanto mi piaceva di lei. Pieno di pensieri, come mio solito, aprii un libro e mi buttai a capofitto sulla lettura e con le mani sudate per il caldo afoso presi un po’ di tabacco, lo misi nella pipa e chiudendo gli occhi mi rilassai.
Punto, di Fabio Carlo Torresani
Mi risvegliai. Era da 4379 giorni che vivevo in quella buia, fredda e disgustosa cella. Come potrà sembrare comprensibile, non la sopportavo. Era piccola; a malapena ci sarebbe potuta stare una persona ed invece a condividerla eravamo in tre: io, Raimondo e Guglielmo. Ho sempre pensato, fin dal primo giorno in cui fui portato in carcere, che in nessuna altra parte del Mondo ci sarebbe potuta essere una stanza condivisa da tre uomini con dei nomi così particolari. Raimondo era un tipico agricoltore delle campagne piemontesi. Viveva con la moglie e i due figli in un piccolo paesino di provincia situato a pochi chilometri di distanza da Alessandria. Era ormai in prigione da parecchi anni, ma non sembrava affatto che tutto quel periodo gli fosse servito a qualcosa: non si era per nulla pentito dei suoi reati. Era un ultras, Raimondo. Era stato coinvolto in un violento scontro tra le due principali tifoserie di Torino: il Torino e la Juventus. Lui non si sarebbe mai tirato indietro. Avrebbe fatto di tutto per difendere i suoi colori: e così, per difendere un compagno caduto a terra e, apparentemente in fin di vita, estrasse dalla tasca del suo giaccone una pistola e fece fuoco. Uccise tre tifosi Granata. Quel giorno le vittime furono ottantatre e i feriti oltre duecento. Passò alla storia come il più grande scontro tra ultras della storia del calcio italiano. Ancora oggi, ogni anno, il 23 settembre, si ricorda quella tragica strage: nulla, però, smuove la coscienza di Raimondo.
Guglielmo, invece, era un importante uomo d’affari. Aveva perso i genitori da qualche anno e non aveva né moglie né figli: l’unico familiare che gli era rimasto era suo fratello, Gabriele. Guglielmo e Gabriele facevano lo stesso lavoro, ma non svolgevano il proprio mestiere insieme. Ognuno andava per la propria strada. Erano molto diversi i due fratelli: da una parte un uomo corretto e leale mentre dall’altra un vero e proprio truffatore. Come potete immaginare, quando scoppiò una maxi inchiesta che portò all’arresto di 29 persone per un giro d’affari illecito dal valore stimato di oltre mezzo miliardo di euro, non fu Gabriele ad essere arrestato. Guglielmo era stato portato in prigione dopo qualche mese rispetto a Raimondo e i due avevano stretto una forte amicizia che si consolidò anno dopo anno.
Poi arrivai io, Tiberio, un giovane colto, ma decisamente poco scaltro, che nulla aveva a che vedere con quei due. Non avevo nemmeno nulla a che vedere con quell’orribile posto. Dico così perché io non dovevo essere lì. Ero stato incastrato da due malviventi che, sfruttando la mia ingenuità, erano riusciti a farla franca. La mia condanna era avvenuta sotto gli occhi increduli della mia famiglia. Non li avevo mai delusi in vita mia. Avevo sempre agito nel modo più corretto possibile e quella notizia sconvolse la vita dei miei genitori, dei miei fratelli e di tutti i miei parenti. Non potevano credere ai loro occhi.
Quando arrivai in carcere, il primo giorno, ero in uno stato d’animo pessimo: speravo fosse tutto un sogno o perlomeno volevo convincermene. Non sono mai stato un irascibile ed infatti non ero per nulla arrabbiato. Ero, piuttosto, triste, mesto, affranto. Dentro di me la speranza di esser assolto veniva meno giorno dopo giorno fino a spegnersi definitivamente dopo un anno di prigionia. La mia unica gioia erano i trenta minuti settimanali nei quali potevo incontrare e vedere parenti ed amici, seppur ammanettato e sorvegliato da una dozzina di guardie. A farmi visita erano sempre le solite persone: i miei genitori si presentavano tre volte al mese, così come i miei fratelli. Tuttavia, una volta ogni tanto mi facevano visita parenti più lontani o amici che tenevano a vedermi. Ero contento di sapere che anche qualcuno al di fuori della mia famiglia mi volesse bene. Terminati quei brevi, ma intensi minuti, la mia vita tornava alla disgustosa routine di un carcerato desolato. Ma un giorno, il giorno 4379, ebbi una piacevole sorpresa. “Signor Bonato, abbiamo una lettera per lei”. Una lettera? Per me? Aprii frettolosamente ed impazientemente la busta che conteneva quel misterioso foglio di carta. Cosa ci poteva mai essere scritto? Chi mi avrebbe scritto una lettera? Perché? Ero entusiasta. Iniziai a leggere. Lessi tutta la lettera, ma arrivato ad un certo momento uno strano e inspiegabile punto interrompeva il testo lasciandolo inconcluso. Guardai se per caso quella missiva fosse stata strappata, se mi ero perso dei pezzi, o se magari ci fosse un secondo foglio nella busta, ma nulla. In fondo alla lettera non c’era nemmeno la firma dell’autore o dell’autrice. Rimasi deluso e amareggiato, ma, in fin dei conti, non diedi troppa importanza a quella lettera. Passò qualche giorno e la situazione si presentò di nuovo. “Signor Bonato, abbiamo una lettera per lei”. Ancora? Sebbene mascherassi la mia eccitazione con malcelata indifferenza, espressioni indifferenti, ero curioso di leggere una nuova lettera. La mia felicità fu, però, smorzata quando iniziai a leggere ciò che c’era scritto. Era la stessa identica lettera di pochi giorni prima. Andando avanti, però, mi resi conto che il discorso continuava rispetto a dove s’era fermato la volta precedente. Così mi misi a leggere attentamente ciò che veniva di seguito. Proprio sul più bello, però, un nuovo punto rovinò di nuovo il tutto. Controllai di nuovo tutto il possibile così come la volta precedente, ma con gli stessi identici risultati: niente strappi, niente firme, niente di niente. Ero nervoso. Ero impaziente di sapere chi avesse scritto quelle lettere e soprattutto la fine di quel dannato discorso che per la seconda volta rimaneva inconcluso. La situazione cominciò ad essere un appuntamento fisso della mia settimana e, dopo qualche tempo, della mia quotidianità. Ogni volta, però, si ripeteva la solita solfa. Quel ‘Punto’ iniziò ad essere il tormento della mia vita. Non dormivo la notte, ero assente di giorno e pensavo solo e solamente a quel Punto che ogni volta mi rovinava la giornata. Un giorno, però, non credetti ai miei occhi. La lettera che ricevetti quella mattina sembrava veramente andare in fondo alla questione. Non potevo crederci. Avrei scoperto chi si celava dietro a quel misterioso punto? Avrei avuto delle risposte da quel discorso interminabile che mai arrivava ad una conclusione? Cavolo, no! Si ripresentò quel Punto che tanto avrei voluto non vedere più. Girai la lettera, guardai nella busta, ribaltai tutto nella speranza di trovare una risposta. E proprio nel momento di maggiore disperazione trovai un bigliettino nascosto all’interno della busta. Lo aprii. “Guarda alla finestra”. Guardai. C’era un uomo. Da quel poco che riuscivo a vedere da quel piccolo buco vedevo un signore vestito elegantemente, in giacca e cravatta: aveva un’aria distinta e sembrava proprio mi stesse aspettando. Finalmente avrei potuto chiedere spiegazioni, avrei ottenuto delle risposte, avrei conosciuto chi si nascondeva dietro quella penna. Mi avvicinai. Dissi: “Buongiorno”. Un silenzio di tomba seguì il mio saluto. Dopo attimi interminabili nei quali rimasi immobile a fissarlo, finalmente si pronunciò: “Punto”. Scoppiò in una risata fragorosa e se ne andò. Scoppiai a piangere. Non piansi mai così tanto in vita mia. Ero disperato. Iniziai a tirare calci e pugnio al muro. Andai in bagno, ruppi tutto ciò che poteva essere distrutto. Poi, preso dalla rabbia e dalla follia decisi, precipitosamente, che dovevo mettere un punto alla mia vita, che ormai non aveva più senso di essere vissuta. Uscii dalla cella e corsi da un agente. Con una mossa fulminea gli rubai l’arma da fuoco. Me la puntai alla testa e urlando a squarciagola come uno psicopatico premetti il grilletto. Punto.
di Umberto Pagliari, il dodicesimo racconto
Fa piano, però, perché ci sente. Ma figurati, è privo di sensi. E invece ti dico che è così, qualche tempo fa ho letto su un articolo di giornale che quelli che si risvegliano poi si ricordano di quello che hanno ascoltato. Conoscevo Christine e credevo che questa fosse solo una delle sue follie, ma a ripensarci fui presa dall’inquietudine. Naturalmente tra noi calò il silenzio, e chi voleva dire qualcosa con questo ad ascoltare? Ma l’atmosfera già pesante dell’ospedale si fece ancor più opprimente ed entrambe cercavamo un modo per rompere la tensione. Lei mi diede una pacca sulla spalla, io vado, e si avvicinò al letto. È stato un piacere Lloyd: lo salutava sempre così da quel giorno, come se avesse intrattenuto una lunga conversazione con lui. Forse non ne avremmo avute più di occasioni, ne avremmo più avutao l’occasione di farlo da quando si era messo a dormire. Uscito dall’ospedale, sulla strada di casa, ripensavo a quel suo studio da tipico intellettuale in cui era solito ricevere gli ospiti, ma sapevo benissimo che era solo una copertura. Dopo la laurea, tutti si aspettavano che intraprendesse una carriera da magistrato, colui che giudica, ma alla fine scelse di fare il giornalista, colui che riporta solamente i fatti lasciando da parte la propria opinione, probabilmente la professione più adatta. Tutti quei libri di giurisprudenza, rilegati in pelle, uno più spesso dell’altro, esposti in vetrina, a qualcuno sembravano un po’ sprecati data la sua scelta lavorativa, ma riuscì comunque a guadagnarsi una certa reputazione. Sicuramente non era un inviato, o il proprietario di un giornale, la sua personalità non glielo avrebbe consentito, egli si limitava solamente a scrivere articoli, di qualità però, non come quelle scemenze che legge Christine.
Christine, Lloyd ed io uscivamo spesso, quando eravamo più giovani. Non facevamo nulla di speciale, solo ciò che altri tipici ventenni avrebbero fatto all’epoca. Pensavo sempre che lui era particolarmente gentile, lasciava sempre a noi due la scelta, non si intrometteva mai nelle conversazioni finché non fosse interpellato, e soprattutto non cercava mai di infilare la sua opinione in testa agli altri. Poi Christine ci dovette lasciare per andare per qualche anno a studiare all’estero; fu certamente un momento doloroso, ma io e Lloyd avemmo l'opportunità di avvicinarci ancor di più e io riuscii a capire meglio di che genere di persona si trattasse.
Un giorno mi chiese di assistere ad un’intervista, nel suo studio ovviamente. Non era niente di speciale, penso fosse una specie di questionario rivolto a tutti gli impiegati del giornale per chiedere la loro opinione su di un argomento che ora non ricordo, o qualcosa del genere. Fino a quel momento avevamo parlato soltanto di sciocchezze, e non l’avevo mai visto dire la sua con altri giornalisti, intellettuali, persone della sua specie, insomma. Quando gli posero la domanda, Lloyd si dilungò più che eccessivamente nell’introdurre la questione, descriveva nei minimi e più ininfluenti dettagli la situazione che gli era stata posta, come per perdere tempo. E ci avevo visto giusto, puntava ad essere il più impari possibile, e ancora mi chiedevo se facesse così con tutti. Quando ebbe finito questa ampia premessa, si mise ad esporre i pro e contro di ogni parte, in modo oggettivo e professionale, ma non aggiunse nemmeno ulteriori commenti, solo un piatto elenco. Era incredibile. Eppure ce l’aveva fatta, il suo tono saccente e quasi a volte sarcastico diede a tutti l’impressione di aver espresso un’opinione in modo subdolo e fra le righe, eppure non c’era nessuna prova a favore di questo. Tutti i giornalisti credevano di essersi fatti un’idea di quel che pensava e della parte per cui era schierato, eppure fra di loro non riuscivano a concordare su quale fosse. Anch’io stavo per cascarci, se non fosse che lo conoscevo da molto tempo e sapevo quali erano i luoghi comuni nel suo discorso. Era come se avesse illuso tutti, con una tecnica affinata negli anni.
Anche negli anni successivi, inoltrandoci ancor più nella vita adulta, continuò a comportarsi in questo modo. Preso dall’indecisione e forse dalla paura di sbagliare, senza mai esprimersi, lasciava che fossero gli altri a decidere per lui, truccati dalla sua superficiale intelligenza.
E fu proprio così che quel giorno, in seguito all’incidente, anche il suo corpo non sapeva più cosa fare, che strada prendere. Sta in bilico tra la vita e la morte, in coma, da tre anni.
di Sebastiano Perni, il dodicesimo racconto
«Ho un solo desiderio: che non vi vestiate di nero. Se volete inchinarvi all'uso, portate pure, ma per non più di tre giorni, qualche segno di lutto. Dopo ricordatemi, se potete, nei vostri cuori e perdonatemi.». Questo fu il testo dell'ultima lettera che scrissi ai familiari appena prima di partire da Napoli sul piroscafo della Tirrenia alla volta di Palermo. Sono nato a Catania il 5 agosto 1906. Ho seguito gli studi classici conseguendo la licenza liceale nel 1923; ho poi atteso regolarmente agli studi di ingegneria a Roma fino alla soglia dell'ultimo anno. Abbandonai seguendo il corso di fisica e nel 1929 mi sono laureato in fisica teorica sotto la direzione di Enrico Fermi. Ricordo perfettamente i miei giorni passati, in particolare il soggiorno tedesco in cui incontrai Werner Heisenberg, fisico tedesco fondatore della meccanica quantistica. Fu lui a convincermi a pubblicare "Über die Kerntheorie", testo sulla teoria nucleare pubblicato sul giornale di fisica. In quel periodo scrissi anche lettere ai genitori, raccontando dell'esperienza che stavo vivendo, di come sono stato accolto all'istituto di fisica, e soprattutto della persona di Heisenberg. Nel viaggio fui colpito dall'organizzazione tedesca, tanto che scrissi a mia madre la seguente lettera: «Lipsia, che era in maggioranza socialdemocratica, ha accettato la rivoluzione senza sforzo. Cortei nazionalisti percorrono frequentemente le vie centrali e periferiche, in silenzio, ma con aspetto sufficientemente marziale. Rare le uniformi brune mentre campeggia ovunque la croce uncinata. La persecuzione ebraica riempie di allegrezza la maggioranza ariana. Il numero di coloro che troveranno posto nell'amministrazione pubblica e in molte private, in seguito all'espulsione degli ebrei, è rilevantissimo; e questo spiega la popolarità della lotta antisemita. A Berlino oltre il cinquanta per cento dei procuratori erano israeliti. Di essi un terzo sono stati eliminati; gli altri rimangono perché erano in carica nel 1914 e hanno fatto la guerra. Negli ambienti universitari l'epurazione sarà completa entro il mese di ottobre. Il nazionalismo tedesco consiste in gran parte nell'orgoglio di razza. In realtà non solo gli ebrei, ma anche i comunisti e in genere gli avversari del regime vengono in gran parte eliminati dalla vita sociale. Nel complesso l'opera del governo risponde a una necessità storica: far posto alla nuova generazione che rischia di essere soffocata dalla stasi economica».
Al rientro seguì la notizia della morte di mio padre Fabio, a cui ero molto legato. Ma ciò che scosse completamente la mia vita e mi portò a scrivere quella lettera fu la scoperta il laboratorio delle proprietà dei neutroni lenti, scoperta che dette l'avvio alla realizzazione del primo reattore nucleare sperimentale, e successivamente alla bomba atomica a Los Alamos. Seguirono tre anni in cui mi chiusi in casa a lavorare per ore senza uscire mai, studiando in maniera furiosa tanto da essermi stato diagnosticato un esaurimento nervoso. Non volevo incontrare e comunicare con nessuno, solo concentrarmi sul mio studio. Respinsi tutte le lettere che mi arrivarono eccetto quelle di mio zio Quirino, con cui parlavo e discutevo sulle mie ricerche. Fu questo il periodo più buio della mia vita, ma alla fine capii. «La fisica è su una strada sbagliata. Siamo tutti su una strada sbagliata»
di Alessandro Mancini, dodicesimo racconto
Avevo caldo. Quel fuoco così accesso creava nella stanza un calore che quasi toglieva il fiato, ma d’altro canto la grossa fiamma illuminava le pareti di un rosso molto acceso, piacevole da vedere. Decisi di andare fuori a prendere una boccata d’aria, lasciando Daisy sola nella stanza. Ci conoscevamo ormai da 11 anni. Ne avevamo passate di ogni insieme. Prima di lei avevo avuto al mio fianco solo ragazze di cui, in tutta sincerità, non mi importava molto. Trattavo tutti, ragazze e non, come se fossero solo sassi con cui mi divertivo a giocare lungo il sentiero. Quando uno di essi usciva di strada, non ci mettevo molto tempo a trovarne un altro con cui intrattenermi durante il percorso. Quello stesso percorso che 11 anni fa, per lavoro, mi portò a Brescia. Avevo da poco finito gli studi universitari; mi ero laureato in ingegneria gestionale al Politecnico di Milano. Pur non impegnandomi al massimo, riuscii a prendere un ottimo 95 alla mia tesi di laurea. L’opportunità di lavorare a Brescia si presentò quando un amico di mio padre venne a sapere di me e del fatto che fossi fresco di laurea. Quell’uomo era proprietario di una piccola azienda siderurgica che produceva lavandini e sanitari. Dopo un breve colloquio, decise di assumermi come controllore della catena di produzione, nonostante la mia giovane età. I primi mesi a Brescia furono di adattamento. A volte nel week-end andavo a prendere un aperitivo o a fare serata con due miei ex compagni di università, che per puro caso avevano trovato come me lavoro in quella città. Proprio una notte, tornato a casa da una bevuta in loro compagnia, entrai nel mio appartamento e mi accorsi che era stato svaligiato. I malviventi mi avevano portato via molto denaro e il mio computer, oltre a qualche giacca che tenevo nell’armadio. Rimasi scioccato. Decisi di non uscire più di casa, se non per lavorare, e di tenermi un coltello sotto il cuscino, nel caso qualcuno provasse ancora a fare irruzione in casa mia. Passato qualche mese, però, mi accorsi che lo stare sempre in casa nel mio tempo libero, ovvero il fine settimana, oltre che essere noioso era anche poco salutare, visto che, non sapendo che fare, passavo la maggior parte del tempo a mangiare cibo spazzatura che prendevo al supermercato o che ordinavo da Just Eat. Ero ingrassato notevolmente. La mia famiglia, vedendomi notevolmente cambiato fisicamente, decise di regalarmi un tapis roulant. Grazie ad esso potevo cercare di fare esercizio e di ritornare in forma, senza però lasciare incuostudito il mio appartamento. Passato qualche tempo cominciai a diminuire di peso; ma se esternamente le mie condizioni stavano migliorando, purtroppo non si poteva dire lo stesso della mia psiche: per la prima volta nella mia vita sentivo la mancanza di una compagnia. L’idea di tornare a uscire nel fine settimana era da scartare, sia perché la voglia non era molta, sia perché i miei due unici amici in quella città se ne erano andati, poiché l’azienda in cui lavorano aveva chiuso i battenti. Questo escludeva automaticamente anche il provare a trovare una ragazza, perchè andare nei locali e provarci con la prima tipa carina non mi era mai piaciuto molto, soprattutto se nel locale mi trovavo da solo, senza una spalla che mi avrebbe potuto aiutare. Durante una seduta di tapis roulant di sabato sera mi venne però in mente un’idea geniale, quella di prendere un cane. Avevo sempre avuto dei cani quando abitavo con i miei genitori e li adoravo, perché erano degli animali che portavano compagnia, ma anche sicurezza. Il giorno seguente andai al canile più vicino. I cani in quel posto erano in prevalenza stati abbandonati, oppure erano dei trovatelli. Non avevo richieste di razza particolari e nemmeno problemi di grandezza, visto che il mio appartamento godeva di un notevole spazio. Tutti i cani di quel posto mi abbaiavano contro. Probabilmente cercavano solo di ottenere la mia attenzione, ma il loro comportamento, per un motivo sconosciuto, mi turbava un poco. Cominciai a ricredermi sul fatto di prendere un animale da compagnia. Stavo per andarmene, quando all’improvviso notai, in una gabbietta in fondo al corridoio, un cucciolo di labrador, che tranquillo stava bevendo dalla ciotola. Mi avvicinai. L’animale non abbaiò, ma anzi alla mia vista cominciò a scodinzolare. Capii che era il cane giusto per me. Dissi allo staff del canile che era quello il cane che volevo. Scoprii che si trattava di un labrador femmina di 3 mesi. Dopo qualche giorno la portai a casa. Decisi di chiamarla Daisy, come la variante di margherite che mia madre teneva sul balcone di casa.
Decisi di rientrare in casa dopo aver raffreddato un po' la mia temperatura e mi stesi vicino a Daisy. Dal suo respiro pesante notai che si era addormentata. Pochi minuti dopo lo feci pure io.